Fino al 24 marzo al Teatro San Ferdinando di Napoli.
Un crudele noir mascherato da dramma borghese e storico. Ferdinando, il capolavoro di Annibale Ruccello, uno dei migliori testi del teatro degli ultimi 30 anni, è di scena al San Ferdinando per la regia di Arturo Cirillo, che per la terza volta (dopo Le cinque rose di Jennifer e L’ereditiera) si confronta con l’autore stabiese scomparso appena trentenne nel 1986. La storia ci riporta al 1870, nella campagna napoletana, in casa della nostalgica baronessa Donna Clotilde (Sabrina Scuccimarra) che nel disprezzo dell’unificazione rifiuta l’italiano e ricorda la Napoli borbonica e i tempi che furono. Inacidita dagli anni e malata, vive accudita dalla cugina povera e zitella Gesualda (Monica Piseddu), che si scoprirà essere amante del parroco del paese, il perverso Don Catellino (lo stesso Cirillo). Ad interrompere una routine fatta di ripicche e odi domestici è l’arrivo di Ferdinando (Nino Bruno), un bellissimo giovane, orfano e lontano parente della baronessa. Ferdinando, da angelica figura diventa un diavolo tentatore capace di far esplodere le perversioni e la brama di desiderio dei membri di questo assurdo trio. Il giovane riuscirà in poco tempo a sconvolgerne gli equilibri familiari, prima conquistando l’anziana padrona di casa e poi mettendo scompiglio tra le due donne. Donna Clotilde, Gesualda e Don Catellino, i protagonisti di questa storia crudelmente realistica dovranno fare i conti con se stessi, con le loro bramosie sessuali, con le loro vendette e il desiderio di prevaricazione. Quattro personaggi isolati nelle loro frustrazioni e perduti: è il quadro che Ruccello ci presenta e che Arturo Cirillo riprende con lucida consapevolezza. La parabola discendente che il bisogno d’amore assume in questa vicenda spoglia i protagonisti di ogni lucida visione della realtà e li catapulta in un gioco macabro tra vittima e carnefice.
“Il desiderio per un inafferrabile adolescente- spiega Cirillo- nato da un inconsolabile bisogno d’amore, matura nella mente di personaggi disperati, prigionieri della propria solitudine, esacerbati dall’abitudine. Allora tutto l’aspetto storico mi è apparso una finzione, un teatro della crudeltà mascherato da dramma borghese, in cui anche la lingua, il fantomatico napoletano in cui si sostanzia Donna Clotilde, è esso stesso lingua di scena, lingua di rappresentazione, non meno del tanto “schifato” italiano. Insomma mi pare che con Ferdinando, ancora una volta e ancora di più, Ruccello faccia fuori i generi, sessuali e spettacolari, per mettere in scena l’ambiguo e il sortilegio”.
(Recensione di FRANCESCA BIANCO)