A margine delle polemiche provocate dalla presentazione molisana di “Compagna Luna”, il romanzo dell’ex terrorista delle Brigate rosse, pubblichiamo un intervento autorevole e documentato, soprattutto scevro da ogni dietrologia, che ci auguriamo possa alimentare il dibattito sul tema degli anni di piombo.
Forse non sarà del tutto inutile ritornare, a mente un po’ più fredda, sul caso dell’ex brigatista Barbara Balzerani, venuta nel Molise su invito dell’Osservatorio sulla Repressione (presidente l’ex consigliere regionale Italo Di Sabato) a presentare la ristampa del suo romanzo Compagna Luna, già pubblicato da Feltrinelli nel 1998. Venuta nel Molise e accompagnata, si capisce, dal consueto strascico di polemiche, i cui termini sono ben riassunti negli interventi di Pasquale Di Bello e Michele Mignogna su questo stesso giornale, e in una interessante discussione che si è sviluppata sul gruppo Facebook che una volta faceva capo alla rivista telematica “Il Ponte”.
Una discussione che peraltro ha confermato la tendenza, ben nota, a far prevalere il dibattito, la polemica, lo scontro, sul puro e semplice accertamento dei fatti. Perché il primo fatto da tener presente è che la Balzerani non è stata una comune terrorista. La Balzerani è stata l’ultimo capo delle Brigate Rosse. Sta al terrorismo, cioè, come Riina o Provenzano stanno alla mafia. E così come non si capisce perché si dovrebbe invitare un capo mafioso a parlare della mafia, o un criminale in genere a parlare dei propri crimini, neppure si capisce perché si debba invitare un capo terrorista a parlare di terrorismo.
Tanto più nel caso di Barbara Balzerani, e del suo romanzo, assai più interessato alla ricostruzione diaristica, al quadretto familiare, al racconto intimo, al ricordo sentimentale, al facile lirismo (“e sei animale, albero, brezza”), a una psicologia tanto spicciola nei concetti quanto faticosa nel linguaggio (“non posso limitarmi a scappare e rifugiarmi nel limbo del mio inaccessibile”), che non a una schietta spiegazione di vicende che aiuterebbero realmente a capire, in quel pozzo di segreti, e tragici sospetti, che è stato il terrorismo italiano. Il terrorismo italiano, nella fattispecie, di Barbara Balzerani, di Mario Moretti, del terribile “caso Moro”.
Partendo magari da certi episodi che riguardano proprio lo storico compagno della Balzerani, Mario Moretti. E occupandosi di casi concreti, doviziosamente documentati da fonti certissime, piuttosto che del “groviglio penoso del muto parlare”, delle “contingenze dell’amministrazione del presente” o dei dischiusi recessi dell’infelicità.
Perché se la Balzerani, in questi incontri, volesse veramente aiutarci a capire, e a sgomberare perlomeno il campo dai complottismi e dai falsi misteri (Kgb, Cia, Mossad, servizi deviati, P2 ecc.), potrebbe provare a spiegarci perché contro Mario Moretti esisteva un mandato di cattura fin dal 1972, emesso dalla Procura di Milano (come “uno dei maggiori esponenti del gruppo terroristico Brigate Rosse”, “da ritenersi elemento di speciale pericolosità e come tale da sottoporre a vigilanza”), ma quando il sostituto procuratore Luciano Infelisi nel 1978 indaga su di lui, per il rapimento di Moro e la relativa strage, dichiara che Moretti “non era conosciuto da nessuno”.
Così, almeno, Infelisi testimonierà davanti alla Commissione parlamentare d’inchiesta su caso Moro (audizione del 27 gennaio 1981). Benché su Moretti esistesse un’informativa dell’Ufficio centrale per le investigazioni generali e per le operazioni speciali (UCIGOS), datata esattamente 16 marzo 1978, giorno del rapimento di Moro, che descriveva Moretti come “elemento pericolosissimo”, “uno dei maggiori esponenti dell’organizzazione terroristica”. Dalla stessa informativa si apprende che Moretti, sempre a Milano, era oggetto di altri due mandati di cattura: il primo del 19 maggio 1976, il secondo del 16 gennaio 1977.
E perché un nuovo mandato di cattura nei confronti di Moretti, per il rapimento di Moro e la relativa strage, viene emesso il 19 maggio 1978 e non il 24 aprile, come succede per tutti gli altri brigatisti implicati. Perché il nome di Moretti non compare tra quelli dei terroristi sui quali la polizia vuole mettere una taglia. Perché il dispaccio del ministero degli interni, relativo alla cattura di Moretti, è l’unico che non ha carattere di urgenza. E come è stato possibile che il Sisde, quindici giorni dopo la strage di via Fani, fosse in grado di localizzare “il noto latitante” Moretti in Spagna (per la precisione a Lejona, nei pressi di Bilbao) e non a Roma (nota del Sisde, 1° aprile 1978, indirizzata alla Direzione generale di P.S. – Ucigos).
Non sono dietrologie. Né scoop giornalistici. Sono domande di un parlamentare (Walter Bielli, Ds), esposte, fra mille cautele, ma sulla base di documenti inoppugnabili (note, informative, atti giudiziari, rapporti di polizia), in una relazione presentata alla conclusione dei lavori della Commissione Stragi (25 luglio 2001). Commissione parlamentare, s’intende, dalla quale sia Moretti, sia la Balzerani, si sono ben guardati dal farsi ascoltare. Salvo venire a spiegare il terrorismo a Ferrazzano, con seguito di recita, Dj e festa sociale.
E andrebbe ben verificata la tesi, più meno salvifica, che la Balzerani avrebbe interamente scontato la sua pena. Chi dice con venticinque, chi dice con trenta anni di carcere, rispetto alle sei condanne all’ergastolo, e ulteriori 93 anni e 8 mesi di reclusione, che avrebbe dovuto effettivamente scontare.
Detestabile, macabra contabilità. Ma che almeno non sia detestabile in eccesso, né in difetto. La pura e semplice realtà dei fatti dice che la Balzerani, arrestata nel 1985, ha ricevuto il permesso per il lavoro esterno nel 1995, la libertà condizionata nel 2006; è tornata definitivamente in libertà, avendo scontato la pena, nel 2011. (Moretti, arrestato nel 1981, ebbe il primo permesso premio nel 1993; nel 1995 già svolgeva lavoro esterno, nel 1997 gli venne concessa la semilibertà).
E qui sembra venir meno anche l’opzione che i ragionamenti sulla “opportunità”, sia essa sociale, sia essa morale, sia essa anche strettamente politica, di certi riconoscimenti, e delle relative agevolazioni, vengano tutti dalla destra fascista, conservatrice, reazionaria, mettiamo, del nostro Pasquale Di Bello. Discorso fuori dalla realtà. Il primo a protestare contro il regime di semilibertà sbrigativamente concesso alla Balzerani fu il presidente della Provincia di Genova, Alessandro Repetto. Centrosinistra tradizionale e spiccatamente antifascista. Il quale presidente si dichiarò “indignato e sgomento e, pur nel rispetto delle autonome decisioni che competono all’autorità giudiziaria”, non poté non manifestare la sua contrarietà e il suo sdegno per la “assurda decisione”. Né mancò di ricordare i “famigliari dei carabinieri Emanuele Tuttobene, Antonino Casu, Mario Tosa e Vittorio Battaglini che, tra il 1979 e il 1980”, erano “stati barbaramente trucidati” a Genova, “in nome di quella delirante ideologia che proprio Barbara Balzarani ha contribuito a coltivare e ha praticato”.
E allora non sarà che tutta questa indulgenza, nei confronti dei personaggi come la Balzerani, venga solo da una parte, la stessa, più o meno, che fece eleggere l’ex terrorista Sergio D’Elia e poi lo sistemò alla segreteria nientemeno che della Presidenza della Camera dei Deputati?
Un D’Elia (condannato a venticinque anni, meno della metà realmente scontati) che quanto meno aveva parlato con chiarezza: «Non vi sono progetti, futuri, umanità, speranze, che valgano una vita, la vita di chiunque. Non uccidete. Uccidere è sempre una perdita. Non vi è storia della salvezza, compagni assassini, che possa proseguire se spezza una vita». Cose mai sentite dalla Balzerani, che anche in Compagna Luna ostenta i toni duri e sicuri di sé di un antagonismo fuori dal tempo e fuori dalla sua stessa storia.
Così, parlando di Mario Sossi, pubblico ministero nel processo contro i terroristi del gruppo “XXII Ottobre”, sequestrato dalle Brigate rosse nel 1974, a Genova, la Balzerani ricorda come Sossi avesse “magistralmente rappresentato la ferocia, l’arroganza e l’ottusità di una borghesia che difendeva se stessa dal suo peggior nemico”. Non troppo distante, insomma, dal comunicato n. 5, 10 aprile 1978 (epoca del rapimento Moro), delle Brigate rosse, che attaccava la “cricca genovese” del “teppista Taviani”, «con in testa il “fu” [sic] Coco» e, ovviamente, Sossi. Perché se “il linguaggio delle Brigate rosse era rivelatore nei volantini che facevano trovare nelle cabine telefoniche negli anni ’70, quello dei libri dei loro maggiori esponenti, vent’anni dopo, non è meno rivelatore”, scriverà Antonio Tabucchi (Corriere della Sera, 5 luglio 1998) nella sua tremenda stroncatura di Compagna Luna.
Francesco Coco era il procuratore generale presso la Corte d’appello di Genova che si era opposto alla scarcerazione di otto terroristi del gruppo “XXII Ottobre”, chiesta e ottenuta dalle Br in cambio della liberazione di Sossi. La Balzerani, in Compagna Luna, ricorda Coco come colui “che si era impegnato pubblicamente” e “con fare risoluto si rimangiò la parola”.
Finì – conclude la Balzerani – con i compagni in galera sepolti da condanne secolari, la lotta rivoluzionaria trattata alla stregua di fenomeno delinquenziale e uno scontro armato fortemente sbilanciato sul terreno militare. Eppure quello scambio di prigionieri stava a rappresentare uno stato delle cose: in carcere c’erano dei militanti di un’organizzazione combattente, i primi dal dopoguerra, così come ce n’erano altri che combattevano all’esterno. A torto o a ragione, quei comunisti si ritenevano l’avanguardia di un movimento di classe fortemente critico o completamente avverso alla politica dei partiti e credevano necessario e possibile ridiscutere la questione del potere.
Al di là delle evidenti farneticazioni, la Balzerani omette un particolare essenziale, e cioè che la scarcerazione dei detenuti (di cui quattro ergastolani) era subordinata alle condizioni di effettiva integrità fisica del magistrato. Quando si scoprirà che Sossi dal rapimento aveva riportato una serie di lesioni (inclusa la frattura di una costola), Coco impugnerà il provvedimento di scarcerazione e ne otterrà l’annullamento dalla Cassazione. Per questo verrà assassinato l’8 giugno 1976, a Genova, da un commando capeggiato da Mario Moretti.
La Balzerani in Compagna Luna rievoca la “percezione esaltante di poter partecipare a qualcosa di straordinario”, con la scoperta (o la terribile illusione) “che era persino possibile vincere, sfruttando il vantaggio dell’iniziativa”; parla della «determinazione a cercare nuove strade per continuare quella rivoluzione che aveva consumato in fretta l’innocenza dei primi entusiasmi, di fronte al volto livido di un potere assassino e stragista»; contesta la «cultura politica che non accetta nessuna familiarità con la diversificazione delle soluzioni possibili» (comprese, è da ritenere, le armi). Quella cultura politica «che oscilla tra omologazione e pluralismo indifferente, nell’ossessione di negare le ragioni e la potenza trasformatrice dei conflitti». Mentre le Brigate rosse
animavano il diffuso dibattito attorno alle forme che doveva prendere la lotta armata, con la forza indiscutibile del loro esistere e del successo delle loro iniziative. Lì a dimostrare che era ancora possibile lottare efficacemente e, per tutti quelli che avevano ormai percorso ogni strada percorribile sul terreno dell’opposizione legale, rappresentavano la via d’uscita alla strettoia di dover ormai mettere in conto l’inaccettabile eventualità di uno scontro armato persino per andare a occupare una casa.
Difficile non essere d’accordo con chi (Gianni Malerba, Procuratore generale di Roma, nel 2006), aveva parlato di «condotta apparentemente arrogante».
Difficile non condividere la tesi, dello stesso Malerba, di «un opportunistico atteggiamento di abbandono della sua posizione di irriducibile». Tesi poi fatta propria dalla Procura generale della Corte di Cassazione (2007), nel chiedere ai giudici della Prima sezione penale di annullare la concessione alla Balzerani della libertà condizionata.
Sul ruolo di “cattiva maestra” della Balzerani, proseguito all’interno del carcere dopo gli anni della militanza armata, si interroga Luca Telese (Il Giornale, 19 gennaio 2006). Telese ricorda la ferocità con la quale Barbara Balzerani, nell’aula di tribunale in cui si celebrava il processo alla colonna napoletana delle Brigate rosse, il 12 febbraio 1986, rivendicò l’assassinio del sindaco di Firenze, Lando Conti, «noto costruttore e trafficante di armi», avvenuto due giorni prima. Secondo Telese, aveva voluto dire ai ragazzi che ancora sparavano nelle strade: “sono con voi, la guerra non è finita”. Erano i “ragazzi” che in un volantino comunicavano di aver “ giustiziato Lando Conti, dirigente della SMA e stretto collaboratore del ministro della guerra, il porco sionista Spadolini”.
I diciassette colpi provenivano dalla stessa mitraglietta Skorpion adoperata nel gennaio del 1978 per la strage di Acca Larentia. Con la stessa arma, nel 1985, era stato ucciso l’econonomista Ezio Tarantelli. Con la stessa arma, nel 1988, sarà ucciso Roberto Ruffilli, consigliere economico di Ciriaco De Mita, fatto inginocchiare e finito con un colpo alla nuca. La Balzerani, dal carcere, rivendicherà anche l’uccisione di due portavalori, avvenuta a Roma il 14 febbraio 1987, nel corso di una rapina a un furgone postale.
Poco dopo, il 5 aprile 1987, i due maggiori leader delle Br, Renato Curcio e Mario Moretti, dichiareranno che “oltrepassare” la lotta armata significava “prendere atto dell’irripetibilità dell’esperienza compiuta”.
La Balzerani replica a brutto muso: «Non siamo qui a presentare i bilanci di un’esperienza conclusa, né a perpetuare i termini di un’autocritica che finisce inevitabilmente per sconfinare nel liquidazionismo e nel pacifismo».
“E per dare dei pacifisti a Moretti e Curcio, – conclude Telese – ce ne voleva!”. Come dargli torto. È l’atteggiamento, durissimo, verso chiunque non fosse rimasto su posizioni “irriducibili”, che non è difficile scorgere anche nel romanzo.
Ma tutti quelli che hanno abiurato dalle galere sono tanto diversi da chi ha preso ogni distanza dalle ragioni di non negoziabilità di un intero movimento che voleva fare la rivoluzione? O sono stati solo più ricattati, più visibili e più radicali? Più realisti del re nell’attribuire ogni ragione all’avversario, non hanno potuto conservare nessuna parvenza di autonomia critica e sono finiti a fare da megafono proprio alla povertà di pensiero di chi ha perseguito con scelleratezza il disegno di ricacciare nel ghetto del torbido, dell’impolitico e dell’inconfessabile chiunque si era posto fuori e contro la politica istituzionale.
Così, in questo infinito bla bla, dove “il funesto dà il braccio al dolciastro” e la tragedia sembra ridursi a “scadente rappresentazione d’una filodrammatica di paese” (Tabucchi), fra le “perdute armonie”, i “segreti rifugi”, gli “improvvisi bagliori”, accade che i temi seri vengano appena sfiorati (“Il rancore per l’umiliazione di un padre licenziato da un giorno all’altro perché colpevole di essersi ammalato di lavoro; il suono sinistro delle sirene della fabbrica a scandire ogni tempo di vita e, spesso, anche quello di morte; la miseria di un paese troppo diviso in due, fin nelle sue mappe toponomastiche, per farsi comunità”) e qualche felice intuizione sia lasciata naufragare senza troppi rimpianti (“Per capire il perché della pervicace anomalia che soffoca la cultura politica di questo paese nell’ossessione consociativa della governabilità a tutti i costi; la stessa che impedisce il governo dei conflitti e degli stessi mali sociali e ne tratta sempre come se ogni volta fosse in questione la difesa in armi dell’ultimo avamposto della convivenza civile”), insieme a pagine forti (L’amerikano, con le considerazioni sulla coppia Dozier e la “mortifera pax a stelle e strisce”) o cariche di un pathos che suona sincero (il ricordo di un compagno, Umberto Catabiani).
Tutto sembra passare in secondo piano e scivolare via, lasciando in primo piano la visione intimistica, sostanzialmente egoista, che bene si racchiude nella scena del rapimento di Moro, come una sintesi di tutto il romanzo, delle sue intenzioni reali, della sua poetica: mentre i lettori “immaginano i cadaveri stesi per terra e il sangue che scorre sull’asfalto, e provano un brivido di orrore e di pietà”, – scrive Tabucchi – lei pensa al “compagno che, in quell’inferno, sembra così contento di aver trovato il modo” di regalarle un sorriso. Immagine non meno bella, per chi nei romanzi cerca queste cose, che inutile, per chi cerca di capire come siano andate realmente le cose.
Immagine beffarda, per chi ancora si interroga su chi abbia davvero sparato, quel giorno.