Ha tentato di dimostrare che Pietro Ialongo non era capace di intendere e di volere mentre pugnalava per 14 volte la sua ex fidanzata.
Sotto quei colpi, c’era il corpo di Romina De Cesare che si afflosciava lentamente. Quando in quella stanza di un appartamento nel centro storico di Frosinone erano arrivati i Carabinieri il sangue era ovunque. L’omicida aveva tentato pure di cancellare le tracce di dare una ripulita, prima di scappare. Per tentare il suicidio gettandosi in mare a Sabaudia, dove lo avevano ritrovato in stato confusionale qualche ora più tardi.
I giudici della Corte d’Assise d’Appello di Roma, invece, hanno ritenuto valido l’impianto dell’accusa e hanno confermato la sentenza di primo grado, respingendo la richiesta dell’avvocatessa Marilena Colagiacomo, che chiedeva una nuova perizia.
I giudici di primo grado della Corte d’Assise d’Assise di Frosinone hanno invece scritto nelle motivazioni che Ialongo era pienamente capace di comprendere il significato delle proprie azioni e di volere la morte della ragazza.
La furia del suo carnefice, hanno motivato i giudici di primo grado, è il sintomo, dell’accanimento e del desiderio consapevole di annientamento di Romina, abbandonata al suo destino in piena agonia. A Roma, a rappresentare il padre e il fratello di Romina come parti civili, i legali Danilo Leva e Fiore Di Ciuccio. Quello della sentenza d’Appello è un altro punto fermo del femminicidio commesso nella notte tra il 2 e 3 maggio del 2022.
Doveva essere per Romina l’ultima notte a Frosinone. Il suo carnefice l’ha trasformata nel suo ultimo giorno di vita. Le motivazione saranno depositate tra 60 giorni.