di Vincenzo Di Sabato
Francesco Jovine ha avuto interessi culturali ampi e variegati. Alla forte personalità di eccellente romanziere che molti conoscono, si aggiunge una produzione critica assai vasta e ancora assai poco indagata, che si può in parte recuperare nel grosso volume “Scritti critici” pubblicato nel 2004 dalla casa editrice Milella di Lecce a cura di Patrizia Guida. All’inizio del volume compaiono decine di articoli compilati dal guardiese fin dagli anni Venti del Novecento per la rivista pedagogica “I diritti della scuola”, di cui era collaboratore fisso. Nei confronti delle questioni legate all’educazione dei giovani il guardiese ebbe sempre un occhio di riguardo. Da qualche mese a questa parte nella presente rubrica andiamo pubblicando rilevanti stralci dai libri di lettura per le scuole elementari che Jovine e la moglie Dina (valente pedagogista) pubblicarono negli anni Quaranta. Hanno dissepolto per noi queste gemme tratte dai volumetti originali due studiosi letteralmente innamorati dello scrittore molisano, la professoressa Roberta Nuovavia, abruzzese, e il professor Alberto Sana, bergamasco, autore nel 2023 di un significativo libro per Iannone editore che recupera alcuni importanti e misconosciuti scritti di Jovine al tempo del suo soggiorno in Tunisia ed Egitto. Per le loro minuziose e appassionate ricerche qui, pubblicamente, li ringraziamo, a titolo personale e a nome di tutta la nostra regione.
Qui sotto, e per alcune puntate, la rassegna prosegue.
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Si è già rilevato, nelle scorse puntate di questa rubrica, che nei libri di lettura per la scuola elementare intitolati “Sole sul cammino”, compilati da Francesco Jovine e dalla moglie Dina Bertoni negli anni Quaranta, sono antologizzati molti passi di autori fruibili anche dai più piccoli. Molti sono assai noti (come ad esempio Cervantes, Wilde, Pascoli, De Amicis, Manzoni), altri meno (ma non meno interessanti). Oltre ai brani altrui (che sono la maggior parte), lo scrittore molisano nei volumetti ne inserisce anche di propri, che sono spesso rielaborazioni personali, adatte ai bambini, di biografie di personaggi assai significativi della storia, della cultura, della scienza e della religione: sfilano i nomi di Cristoforo Colombo, di Ferdinando Magellano, di Galileo, di Pasteur, di Edison, di Amundsen, di Fiorenza Nightingale, di Guglielmo Marconi. Tra essi ci sembra molto centrato, dal volume per la quinta classe, il ritratto joviniano di San Giovanni Bosco, che lo scrittore attinge dalle memorie del sacerdote astigiano fondatore dei Salesiani, e che riportiamo integralmente di seguito. Un vero educatore, coraggioso, che conobbe la povertà cercando di portarvi rimedio. Non poteva non piacere al maestro guardiese, sempre così attento alla condizione dei disagiati.
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UN APOSTOLO MODERNO: SAN GIOVANNI BOSCO
Giovanni Bosco incominciò a guadagnarsi da vivere fin da ragazzo, facendo il garzone in un caffè. Sua madre, «mamma Margherita» che era povera e vedova, desiderava tanto di farlo studiare, per vederlo un giorno sacerdote; ma i mezzi non le bastavano e gli cercò un lavoro e lo sistemò in una bottega di caffè con bigliardo.
Giovanni, fra gli altri incarichi, aveva quello di segnare i punti e di assistere i giuocatori. Fra una partita e l’altra, però, non dimenticava i libri e passava a studiare tutti i momenti liberi.
Intanto la sua vocazione lo portava già a diffondere la parola di bene in qualunque occasione; anche nella bottega di caffè, fra gli avventori giovani, cercava di portare delle buone abitudini; rimproverava con dolcezza quelli che bestemmiavano e dicevano parole oscene, tratteneva i collerici, cercava di evitare le risse e i litigi.
Cominciava, fin da ragazzo, la sua missione di educatore. Era un ragazzo allegro, socievole, sempre pronto allo scherzo buono, di carattere affettuoso, intelligente e amante dei libri. Tutti quelli che lo avvicinavano, buoni e cattivi, lo amavano.
Quando diventò sacerdote la sua vocazione di maestro divenne più chiara; per le strade, nelle campagne, in chiesa era attirato verso i ragazzi; verso i ragazzi abbandonati, che schiamazzavano per le vie, senza una guida, esposti a tutti i pericoli; verso i poveri ragazzi destinati a finire nelle prigioni e negli ospedali.
Don Giovanni Bosco amava molto quei ragazzi, li chiamava intorno a sé, se li portava a casa, li nutriva, li educava; li lasciava soltanto quando li aveva rimessi sulla buona strada e li vedeva capaci di lavorare onestamente.
Molte volte quei ragazzacci gli davano dei dispiaceri; allora lui li amava di più; mentre altre volte non aveva pane da offrire ai suoi protetti; e allora li raccomandava alla Provvidenza e il pane arrivava sempre.
A poco a poco i suoi figlioli crebbero di numero: dieci, venti, cinquanta. Don Bosco era povero ma aveva fiducia nella Provvidenza; la sua casa non bastava, i suoi guadagni non bastavano; ma i benefattori arrivavano da tutte le parti e i figli di Don Bosco ebbero sempre una coperta e il pane. Entravano da Don Bosco discoli e fannulloni, ne uscivano buoni cittadini e buoni cristiani.
Centinaia di ragazzi traviati furono così educati da lui. Dopo la sua morte avvenuta il 30 gennaio 1888 all’età di 73 anni, i sacerdoti suoi seguaci hanno seguitato ad educare e a istruire ragazzi; hanno fondato scuole in tutto il mondo e non soltanto per ragazzi discoli. Ma del loro maestro hanno conservato il carattere affettuoso e sereno; essi ricordano che Don Bosco giocava sempre con i suoi discepoli, rideva con loro, amava la loro allegria come un segno della loro innocenza.
I PRIMI FIGLI DI DON BOSCO
Una sera dell’aprile 1847, narra Ernesto Vercesi, passando pei luoghi deserti che allora s’incontravano tra via Doragrossa, poi Garibaldi, e Corso Valdocco, si trovò di fronte a un crocchio di una ventina di giovincelli, che, fingendo di parlare tra loro, presero a deriderlo. Egli capì di che cosa si trattava, ma li salutò cortesemente.
– Perché non ci paga da bere? – chiese uno di quei birichini.
– Ma sicuro, pagherò, – rispose Don Bosco – berrò con voi.
Li condusse in un’osteria vicina, ordinò una bottiglia e poi un’altra e quando li vide più mansueti ne approfittò per dare loro dei buoni consigli. Disse poi ai suoi piccoli amici:
– Da bravi, giovanotti, andatevene a casa.
– Io non ho casa, – sussurrò uno di loro.
– Nemmeno io, – aggiunse un secondo, e poi un terzo.
– E dove dormite?
Risposero: chi presso uno stalliere, coi cavalli; chi in un dormitorio da quattro soldi, un po’ dovunque.
Il Nostro vide a quali immoralità erano esposti e soggiunse:
– Allora facciamo così: coloro che hanno casa e parenti, vadano pure. Gli altri vengano con me.
E riprese la via di Valdocco seguito da dieci o dodici monelli, poiché per istrada se ne erano aggiunti di nuovi.
Margherita – la madre di Don Bosco – era in pensiero per il ritardo del figlio. Questi spiegò l’accaduto. Fece recitare una preghiera ai suoi ospiti, li condusse sul fienile, diede a ciascuno un lenzuolo, una coperta, raccomandò il silenzio e l’ordine e andò a coricarsi egli stesso, lieto di aver alla meglio inaugurato un ospizio.
La mattina per tempo si recò per svegliarli, per dar loro un saluto, ma rimase a bocca aperta. Quei bricconi se l’erano svignata prima, portando seco lenzuola e coperte.
Il primo tentativo di un ospizio era finito male.
Una sera di maggio, mentre pioveva a dirotto, un ragazzo sulla quindicina bussò alla porta. Era bagnato da capo a piedi, e domandava un pezzo di pane, un rifugio. Era venuto dalla Valsesia in cerca di lavoro come muratore. Aveva spese le tre lire che costituivano tutta la sua ricchezza. Non aveva più niente, nessuno a cui rivolgersi. Chiedeva che gli si lasciasse passare la notte in qualche angolo della casa. Ciò dicendo ruppe in dirotto pianto.
– Io ti riceverei volentieri – gli disse Don Bosco. – Ma posso fidarmi di te? Ne ho ricoverati altri che mi portarono via lenzuola e coperte.
– Ella può fidarsi di me – rispose il ragazzo; – sono povero ma non sono ladro.
Madre e figlio si consultarono. L’avrebbero messo per una notte in cucina. Sarà la volta delle pentole? pensò Don Bosco, ma fu un attimo. Gli si preparò alla meglio un lettuccio. All’indomani le pentole erano al loro posto. Il ricoverato era un bravo ragazzo che continuò per qualche tempo a riposarsi tutte le notti nella casa di Don Bosco.
Un secondo ricoverato fu in certo qual modo raccolto sulla strada. Don Bosco l’aveva trovato sul Corso chiamato ora «Regina Margherita», appoggiato ad un piccolo olmo, in atto di piangere. Interrogato, rispose: – Sono un povero fanciullo abbandonato da tutti. Ho perduto mio padre prima di averlo potuto conoscere e mia madre, che mi aveva prodigato tante cure, è stata sepolta ieri. Ho dormito questa notte nella camera da lei presa in affitto. Ma non avendo essa lasciato di che pagare la pigione, si sono presi i suoi abiti ed anche i miei, e mi hanno messo alla porta.
Pochi giorni dopo i ricoverati erano sette.
I RISSANTI
Nelle memorie di Don Bosco si legge:
«Un giorno un gran numero di giovani esterni s’erano presi il barbaro piacere di venire a battagliare qui vicino al nostro Oratorio. Scagliavan sassi tali da restare ucciso sul colpo chi ne venisse colpito.
Io accorsi subito, e con segni e con grida cercavo di trattenere quei forsennati; ma nulla valeva.
Allora dissi fra me:
– Questi giovani corrono grave pericolo: qui c’è l’offesa di Dio; ch’io debba lasciar proseguire impunemente questa lotta micidiale? No! La voglio impedire a qualunque costo. A mali estremi, estremi rimedi.
E che cosa ho pensato? Ciò che prima d’allora non avevo mai fatto. Vedendo inutili le mie parole, mi sono gettato in mezzo a quel turbinio di proiettili, e scagliandomi addosso a una parte dei belligeranti, a scapaccioni e a pugni ne atterrai un gran numero e gli altri misi in fuga. Corsi poi su quelli della parte opposta e feci lo stesso. Così ottenni che cessasse quel disordine, causa di tante funeste conseguenze.
Rimasi padrone di quei prati, e per quel giorno nessuno osò ritornarvi. Quando poi volli ritirarmi, fui salutato da qualche urlo lontano.
Rientrando in casa io pensavo:
– Ma che cosa ho fatto? Io potevo esser colpito da una di quelle pietre e stramazzare a terra…
Ma, né in questo momento, né in altri simili casi mai mi accadde alcun male, eccetto una volta che ricevetti un colpo di zoccolo sulla faccia e ne portai il segno per alcuni mesi.
È proprio com’io dico: quando uno confida nella bontà della sua causa non teme più nulla… Io sono così fatto: quando vedo l’offesa di Dio, se avessi contro un esercito, io, per impedirla, non mi ritiro e non cedo».
a cura di Roberta Nuovavia e Alberto Sana