di Claudio de Luca
Anche quest’anno la “Scuola del gusto” di Larino dedica due giorni ai suoi “itinerari” gastronomici. Si tratta di un percorso formativo avviato con “Molicaseus” e patrocinato da “Milano-Expo 2015” per avvicinare il pubblico alla cultura dei prodotti lattiero-caseari molisani. L’offerta viene proposta e divulgata dal prof. Sebastiano Di Maria dell’Istituto tecnico agrario statale frentano con la collaborazione di “Atm”, un’Azienda di trasporti regionale che accompagnerà i partecipanti alla scoperta degli angoli locali dedicati alle leccornìe culinarie. Oggi si allude a scuole dei sapori ed a giacimenti gastronomici forse perché l’istinto di conservazione fa pensare alla traversata terrena che ciascuno si ripromette di praticare al meglio. Col calendario gregoriano, agosto divenne l’ottavo mese dell’anno. Prima veniva chiamato “sextilis” (perché era il sesto); e, solo dopo, “augustus”, in onore dall’imperatore romano da cui prese nome pure il ferragosto (“feriae Augusti”). Si tratta di un periodo in cui tutti si abbandonano a mangiare di più, in grazia del clima vacanziero. La gran parte delle persone prende a girare per le località in cui operano somministratori (talvolta improvvisati, tal’altra passabilmente professionali, certe volte illustri) versati – o meno – nelle specialità gastronomiche della “ventesima”; ma vorremmo sottolineare che questa costumanza, un tempo limitata alla bella stagione, da qualche tempo ha cominciato a prendere piede pure nei mesi invernali. Naturalmente non si vuole alludere a “grandi abbuffate”, come fece Marco Ferreri nel suo film per criticare la società dei consumi, intesa come facilità ed abitudine al soddisfacimento delle proprie necessità materiali. Per conseguenza non scrivo per chi voglia esaudire i propri istinti primordiali bensì per coloro a cui piaccia accostarsi al desco con discernimento, attingendo ad una cucina valida, se non addirittura raffinata. Oggi, quando si gira per ristoranti, per trattorie e per locali (agrituristici e non) dell’ex-Contado, il problema non è più quello di cogliere le sfumature tra i modi di cucinare dei vari cuochi o tra le maniere di apparecchiare, spesso studiate da accorti maestri di sala. E’, piuttosto, quello di soddisfare – con il fiuto e col palato – i gusti più “sopraffini” giustamente coltivati da chi intenda essere considerato un consumatore eccellente. Perciò può accadere che mute di “perlustratori” vadano alla ricerca di un pomodoro (che abbia l’autentico gusto di un “pomo d’oro”) o di una porzione di manzo (che possa risvegliare almeno il ricordo dei lessi di una volta) o di una fetta di pane (esalante la giusta fragranza del frumento). Le ricerche saranno pressoché inutili perché oramai i cibi (fatte le dèbite eccezioni per ciò che viene ammannito da pochi validissimi ristoratori molisani) si distinguono non più dal sapore quanto piuttosto dal colore, dalla forma e dall’elaborata (ma inutile) presentazione in tavola. I nostri anziani ricordano l’odore del tuorlo d’uovo crudo e tutte le fragranze che questo assume quando sia stato cotto all’occhio di bue, in camicia oppure sodo. Ma oggi di queste cose rimane soltanto una rimembranza. Perciò, la domanda è: ma vi è ancora chi conosca veramente qualcosa dell’uovo? C’è qualcuno che l’abbia studiato proprio a fondo, sino a spingersi con la testa (come farebbe un incallito “voyeur”) sin nell’”intimo” della gallina solo per vedere come quel capolavoro venga alla luce, per poi scoprire che esso fuoriesce dalla cloaca in forma tubolare per assumere solo in seguito – solidificandosi a contatto con l’aria – quella forma perfetta che sorprese ed affascinò il pittore-umanista Piero della Francesca? Tra i volgari consumatori di cibi, oggi imperversanti nei ristoranti, chi si è mai chiesto i motivi di quella lànula bianca che si scorge in fondo al guscio; e che altro non è se non una piccola riserva di ossigeno destinata ad aiutare il pulcino nel momento che intercorre tra l’inizio della respirazione e la rottura del guscio? Son cose note solo a pochi raffinati del gusto perché, oramai, ci si accosta ad un desco soltanto per il “passa-parola” di un amico, ritenuto versato nella principale fra le tecniche di vita materiale: quella dell’alimentazione. “Mangiare!” è rimasto il grido più antico dell’uomo comune molisano, forse perché un tempo la cràpula è stato il sogno di centinaia di affamati locali, così come oggi la dieta rappresenta la sola speranza dei tanti obesi che vivono nel Campobassano, nell’Isernino e nel Termolese. Ma cosa ha saputo mai fare la civiltà dell’èpa? E cosa è stata nei secoli l’arte culinaria locale, i cui residui – destinati a finire come tutte le cose buone e belle – si depositano sempre in “umile e triste loco”? Oggi, le riviste di cucina non celebrano più i fasti pantagruelici dei grandi mangiatori. Si limitano a studiare i problemi di una scorretta alimentazione con serietà, pur non trascurando gli aspetti pittoreschi del mangiare, la storia dei cibi e perfino quella di certe malattie (quali l’anoressìa) legate alla funzione nutritiva.